Non ci sono troppe scorciatoie: ci devi essere e non ci puoi fare.
La buzzword con cui ho iniziato questo 2022, professionalmente parlando, è stata “Brand Authenticity”.
Di fatto, se si parla di branding, unicità e autenticità sono due concetti di cui riempiano le nostre bellissime slide a qualunque presentazione.
E, un po’ come quella storia che a forza di ripetere una parola ad alta voce arriva il momento in cui rimane solo il suono- senza il suo significato- così dentro alle slide risuona soltanto un vago sentore di qualcosa che poteva essere e non è mai.
Le vedo, queste slide. Sento la parola “autentico” nelle call. Leggo, continuamente, di quanto la Gen Z non si lasci abbindolare dai messaggi commerciali non cause related. E quindi tutti a scapicollarsi verso la Gen Z producendo incredibili esempi di washing di ogni tipo. Insomma, abbiamo detto che non si lasciano abbindolare e che facciamo come prima cosa? Cerchiamo di abbindolarli?
Che significa autentico?
Ma il punto è il significato della parola. Autentico.
Cioè vero, regolare, che resiste alla prova, non falsificato.
Quello che mi viene da pensare è che autentico abbia molto a che fare con sincero. Trasparente.
Oh no, non la trasparenza che leggiamo negli about polverosi di certi siti web o nelle prime pagine delle brochure, dove le aziende si raccontano (nella doppia accezione semantica) che ci tengono a noi e che non ci fregheranno. Perché ci fregheranno e lo sappiamo entrambi.
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Non ho bisogno di dire a qualcuno che sono una persona sincera se lo sono davvero, perché questa caratteristica sarà manifesta prima o poi, quando la stessa persona parlerà di me in mia assenza.
La sincerità si vede nelle azioni. O meglio, qualsiasi caratteristica lo fa. Perciò se esiste un disallineamento tra ciò che dici e ciò che fai, nemmeno la campagna di marketing migliore del mondo sarà in grado di colmare quel divario nella mente dei tuoi clienti. Quello scollamento percettivo che fa mettere sulla difensiva.
Ma andiamo con ordine.
Lo spazio dell’autenticità
“Coloro che raccontano storie governano il mondo”, ho letto qualche giorno fa su un pezzo del Sole24h comparso nel mio feed Linkedin. E già vedevo lə “storyteller” fregarsi le mani. Se posso permettermi, forse cambierei quell’headline in “Coloro che raccontano tutta la storia governano il mondo”.
Tutta, non solo quella che ci fa belli agli occhi altrui.
E lo dico perché mentre riflettevo sulla autenticità del brand mi è tornato in mente il cosiddetto “Effetto Pratfall”: quel meccanismo psicologico per cui l’attrattiva nei confronti di una persona che reputiamo superiore aumenta se commette un errore goffo; lo stesso errore tende invece a diminuire l’attrattiva di una persona che reputiamo mediocre.
Nella ricerca che ha portato alla sua scoperta, lo psicologo Elliot Aronson ha registrato un attore (dotato delle risposte corrette) che rispondeva alle domande di un quiz con una precisione del 92%. Ha poi mostrato questo filmato a un gruppo di partecipanti a cui in seguito è stato chiesto quanto fosse simpatico l’individuo. A un secondo gruppo di partecipanti è stata quindi mostrata la stessa registrazione, ma alla fine l’attore è stato filmato mentre si versava addosso una tazza di caffè. I partecipanti a cui è stata mostrata la fuoriuscita di caffè hanno trovato il concorrente del quiz molto più simpatico del gruppo a cui non è stata mostrata la sua goffaggine.
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Eppure, non siamo per niente bendisposti ad ammettere gli errori. È la polvere da ficcare sotto il tappeto, ciò da tenere ben nascosto mentre ci spertichiamo con la trasparenza e le buone intenzioni e tutte le manfrine che facciamo dire ai marchi sui loro valori. Solo per venire scoperti, chi prima o chi dopo, a commettere scempi rilevanti proprio in riferimento a quelle fondamenta su cui tutto dovrebbe poggiare. La polvere sotto al tappeto un po’ ci sta, è innegabile, ma basta spostare un minimo il tappeto perché venga fuori.
Nel 2015 uno studio della Northwestern University ha rilevato che “la probabilità di acquistare un prodotto aumentava all’aumentare della valutazione media delle recensioni fino a raggiungere un punto critico, da qualche parte tra 4,2 e 4,4 su 5. Dopo quel punto, la probabilità di acquisto è diminuita man mano che la valutazione media è salita.
Ciò significa che puntare a recensioni impeccabili può alla fine peggiorare le probabilità e diminuire vendite e fedeltà al marchio. Una strategia migliore per sfruttare l’effetto Pratfall sarebbe quella di rispondere alle recensioni negative, ammettere gli errori e dimostrare che sei dispostə a imparare da essi. Chi ammette un errore vince praticamente sempre, e consegna nella mente di chi guarda la convinzione che sì, uno sbaglio circoscritto ti rende umanə e non compromette il valore che sai creare.
Incredibile, no?
Un brand è autentico solo se le sue persone lo sono
La variabile fondamentale di tutto questo sono come sempre le persone. Le persone che compongono aziende e organizzazioni, che condividono obiettivi e visioni. Che forgiano con i propri valori le marche che vengono immesse sul mercato. Non c’è scorciatoia in questo.
Tutto il branding come lo conosciamo deriva da quell’allineamento, dalla percezione che poi i clienti hanno quando usano, consumano, guardano i prodotti. Non dalle belle parole che scriviamo nei manifesti di marca. Non dalle slide in cui descriviamo con dovizia di particolari il Brand DNA e la Brand Personality.
Ogni singolo messaggio deve contenere quelle fondamenta. E può contenerle in una miriade di modi diversi, che svelino la moltitudine di imperfezioni che riversiamo in ciò che facciamo.
Se ci guardiamo indietro sappiamo perfettamente che tutto il sistema lavoro è stato creato per generare profitto. Il che chiaramente non è il male assoluto. Il punto, credo, è che a un certo punto il sistema si sia dato dei dogmi e si sia fornito degli alibi: per continuare a prosperare inarrestabile c’era bisogno di alcune metriche nuove per misurare il successo. Ed ecco allora che siamo scivolati nella società dell’iper-performance, dove l’indicatore non è tanto la soddisfazione o il raggiungimento di certi obiettivi ma lo sfidare costantemente i limiti: di fatturato, di ore lavorate, di riconoscimenti, di, di, di.
In un contesto del genere non c’è spazio per l’errore, anzi. Siamo tuttə perfettə, tuttə al top, tuttə migliori. Viviamo invischiati in fogli excel che ci misurano e in confronti disumani con gli altri individui, che diventano immancabilmente i nostri personali competitor. Non riusciamo nemmeno a poltrire senza sentire un inquietante senso di colpa.
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Eppure, dovremmo dare vita a marche autentiche, trasparenti e sincere. Dovremmo non disallinearci. Sentire le cause giuste e attivarci di conseguenza perché altrimenti la Gen Z non ci compra e i nostri messaggi falliscono nel risuonare.
Quindi la domanda è: come si fa? Come si fa a essere autentici in un mondo che non ci permette di esserlo e che ti schiaccia se lo sei perché non sei compliant?
Non ho troppe risposte a questa domanda ma un punto da cui partire sì.
Sono abbastanza sicura che non possiamo infondere sincerità nel lavoro se non abbiamo il coraggio di essere sincerə in prima persona.
Le marche percepite come autentiche sono quelle dietro alle quali lavorano persone coraggiose, che credono davvero in ciò che fanno e che lo raccontano, anche quando è sconveniente, anche quando i tempi sono avversi e soprattutto quando sbagliano.
Che si espongono. Che hanno come fari l’integrità e la coerenza: che non abbandonano i propri valori e non scendono a patti “col mercato”, “con il target”, “con la politica”, qualsiasi cosa tutto questo voglia dire.
No, non sto dicendo di sovvertire con colpi di stato le organizzazioni. O di essere l’outsider che manda al diavolo i piani di crescita delle aziende.
Sto dicendo che forse ci apprestiamo a vivere una nuova era in cui non si potrà più prescindere dal raccontare tutta la storia. E che chi avrà il coraggio di farlo, senza compromessi, avrà più fortuna degli altri.
Un’era in cui la vita imiterà la comunicazione di marca più di quanto oggi succeda il contrario.
Un aggiornamento importante, nato da una idea folle e scritto in un periodo “molto strano della mia vita” (citando Marla Singer di Fight Club).
Se siamo già in contatto sui social magari lo sai, ma il 4 di febbraio sarà disponibile in libreria “Scrittura Ribelle”- Anti manuale di scrittura creativa” edito da Hoepli, con la prefazione di Paolo Iabichino.
Si può già pre-ordinare qui.
Verrà presentato per la prima volta il 19 febbraio a Milano, presso Luiss Hub. Un po’ di info utili alla prenotazione dell’evento qui.
Non vedo l’ora di parlartene.