Suonerà iperbolico ma questo film mi ha insegnato più o meno tutto ciò che so della vita. E moltissimo sulla pubblicità.

Lo ammetto: rimango incastrata dentro ai film, dentro ai libri e ascolto in repeat anche quindici volte di seguito la stessa canzone quando ne rimango ossessionata.
Il fatto è che ancora non sono venuta a patti con la mia necessità di ossessioni e quindi, insomma, trova qualcosa che ami e lascia che ti uccida, right?
Eppure, dentro di me vivono un miliardo di contraddizioni, tutte più o meno discutibili, come l’ossessione viva e bruciante che a distanza di 23 anni ho per il film Fight Club di David Fincher (tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk).

Rileggo, riguardo, ripenso.

E riconosco come potrebbe apparire ipocrita questa mia idolatria per il personaggio di Tyler Durden, lavorando in un settore che prospera- letteralmente- grazie al consumismo. Ma nonostante questo, l’eroe improbabile di Fight Club credo possa insegnarci alcune cose sulla prospettiva da adottare in campo creativo e pubblicitario.

Disclaimer: non è mia intenzione piegare né il personaggio né il messaggio di cui il personaggio si fa promotore. Non snaturerò Tyler Durden, non lo metterò al servizio di questa Newsletter per insegnare “le 5 lezioni di marketing che blablabla”.
Uno perché ci tengo.
E due perché sarebbe una cosa terribile da fare, all’autore e al regista.

Io credo che Durden abbia ragione sulla pubblicità.
Perché non è il marketing il problema in questione, piuttosto lo è il cattivo marketing. Il mondo digitale ha portato con sé un’abbondanza di opportunità pubblicitarie e, sebbene questa sia un’ottima notizia per le aziende, significa anche che ci vengono scaraventate in faccia pubblicità da tutte le angolazioni. Il cambiamento nel modo in cui consumiamo gli annunci ha alterato il modo in cui creiamo gli annunci. E questo a discapito della qualità di ciò che produciamo.

“La pubblicità ci fa inseguire le macchine e i vestiti, fare lavori che odiamo per comprare cazzate che non ci servono. […] Siamo cresciuti con la televisione che ci ha convinti che un giorno saremmo diventati miliardari, miti del cinema, rock star. Ma non è così”.

Una delle citazioni più famose di Fight Club mostra in maniera incontrovertibile il cambiamento dei consumatori stessi in relazione ai prodotti commerciali: sono diventati più consapevoli e più saggi rispetto alle tradizionali tattiche che il marketing ha usato per decenni su di loro. Le persone non si accontentano più di non comprendere i motivi dietro una adv con grandi budget che si limita a mostrare belle persone che raccontano perché hanno bisogno di un determinato prodotto. Non vogliono crederci. A noi, che quella roba la mettiamo in circolo.

Dov’è finita tutta la buona pubblicità?

Da qualche parte, tra ATL e BTL (e quindi in qualche modo Between The Lines), il mondo dell’advertising sembra aver perso la sua scintilla e quel senso di originalità è qualcosa che non ci aspettiamo più. Nel 2013, Banksy ci aveva consegnato un poster.

E da quella prospettiva, beh, cazzo se aveva ragione. Non era nemmeno la prima volta che mi facevo problemi di etica o che non ci dormivo la notte. In fondo, quellə come noi fanno comprare cose. Eppure, grazie alla percezione di questo cambiamento da parte del pubblico abbiamo potuto fare una riflessione profonda su noi stessə, sulle persone creative, sulle agenzie, sulle aziende. Una specie di gigantesca seduta di terapia condivisa. C’è chi finge, chi non si espone troppo, chi ha paura, chi pensa a quanto ci costerà. Chi dà il tutto per tutto.
Eppure.
Ci ha costretti a pensare più attentamente.

“Le cose che possiedi alla fine ti possiedono”

Anche le convinzioni funzionano allo stesso modo. Dobbiamo rivoluzionare il modo in cui pensiamo alla comunicazione, alla pubblicità, al marketing. Collettivamente, siamo pressoché una generazione ossessionata dai competitor. Chiaro, fa bene sapere cosa i tuoi competitor stiano facendo e come, ma i limiti e le regole che si danno non devono essere i nostri. Tutti a fare instant marketing. Tutti a cavalcare i trend. Tutti che guardano, sbirciano, ripetono.

“Tutto è una copia di una copia di una copia” 

E dappertutto leggo che dovremmo concentrarci sull’identità di marca, sui valori. Sulle nostre persone. Considerare il messaggio. E quello che facciamo, invece, è il più delle volte una versione rigurgitata di ciò che i competitor hanno buttato fuori un mese prima. E, spesso, facciamo adv che parlano a chi fa adv. Pensate quanto siamo egoriferiti.

Perciò dico che Tyler ha ragione. O meglio, è la ragione.
Consideriamo il modo in cui viene commercializzato al narratore. Tyler è essenzialmente un prodotto: è tutto ciò che il narratore vuole essere. La faccia di Tyler è logo prima della saponetta rosa e il narratore non ne ha idea. Ed è questo, credo, a renderlo un prodotto così potente. Questa forma di autenticità.
Perché se un annuncio, uno spot, un radio è davvero eccezionale non ci rendiamo nemmeno conto che qualcuno sta tentando di venderci qualcosa.
I Fight Club sono prodotti ben commercializzati, con una headline perfetta. “Non si parla del fight Club” promuove un senso di esclusività, che risuona con il suo pubblico. Non se ne parla eppure il word of mouth è ciò che lo fa prosperare.


La prossima volta che in una riunione ti chiedono “qualcosa di disruptive” puoi rivenderti Tyler.

Possiamo diventare attenti e intelligenti e generare relazioni nello stesso modo in cui i fight club clandestini generano il proprio interesse e aumentano i propri membri.

Come?

Come fa Tyler, colmando una lacuna nella vita del narratore. Facendosi portavoce di una narrazione e di una restituzione aderente ai valori di marca. Una narrazione non plasmata soltanto sul desiderio ma composta da mille sfaccettature che Tyler conosce, perché sono sue. Anziché concentrarsi su qualcosa di molto generico, su una scrittura lasca e catchy (ma solo all’apparenza) crea un legame che attiri esplicitamente e a un livello più profondo la propria nicchia. Il vecchio mantra del “qualità invece che quantità”. Che si tratti di un topic, della tua mission, di una causa a cui tieni, di una preoccupazione che le persone hanno- siamo pur sempre, in fondo, nell’anno della pandemia numero tre.

Tyler si preoccupa di ogni membro del Fight Club, ha a cuore le loro storie, i loro vissuti, fa letteralmente empowerment. Senza questo sentimento di cura, senza questa prospettiva collettiva, siamo solo creatori di rumore di fondo, di cose che si impastano nei feed e sfuggono all’attenzione. Di cose che dicono ma non parlano a nessuno perché tentano di parlare a tutti.

Naturalmente l’intenzione della pubblicità sarà sempre quella, in un modo più o meno spinto, di vendere qualcosa: il punto è che spesso ci si dimentica di trovare la giusta prospettiva, il framing narrativo, la connessione intimista, per farlo. E non ce lo possiamo più tanto permettere oggi, soprattutto se non siamo nello scantinato buio e umido dove tutto è iniziato.

Cambiare prospettiva (ok, magari non fino all’anarchia)

“-Quando la gente pensa che stai morendo allora ti ascolta veramente invece di…
-Invece di aspettare il suo turno per parlare?
-Sì”

Uno dei più gravi problemi dell’industria creativa è il parlarsi addosso. Io, io, io. Facciamo dire ai marchi quelli che diremmo dei noi stessi, in una dimensione monologica anziché dialogica. Parliamo a invece di parlare con. E ci aspettiamo gli applausi eh, ci aspettiamo engagement. Continuiamo a riempire le slide di formule come conversational marketing quando non sappiamo nemmeno da che parte iniziare. Se potessi dare un umilissimo suggerimento, che consta di una parola soltanto, sarebbe: ascolta. Ascoltare davvero significa mettersi da parte, capire le intenzioni dell’altrə, smetterla di pensare di essere ə più bellə e ə più bravə e intercettare i segnali che ə clienti ci inviano. Dove sono, cosa fanno, cosa è importante e cosa no. Di cosa parlano, quando, perché.
Un buon punto di partenza? Il community management.

Il primo fight club è partito da uno scantinato in cui le persone erano accomunate da un legame. Trova quel legame. Alla fine, credo, è tutto ciò a cui dovremmo mirare con la nostra comunicazione.
Se sembra rischioso è perché in fondo:

“È solo dopo aver perso tutto che siamo liberi di fare qualsiasi cosa”. 


Sull’ascolto ho scritto tanto e molto è finito in Scrittura Ribelle, attraverso diversi capitoli. Questa è una delle prime pagine.

Sabato 19 lo presento a Milano, in Milano Luiss Hub. C’è ancora qualche posto e, se vogliamo incontrarci, il link è questo. Con me ci saranno Paolo Iabichino e Ciccio Rigoli, se venite per loro sono contenta uguale.

Per chi con le parole ci lavora c’è un’edizione bellissima di Playcopy, il convegno immersivo sul copywriting e la buona comunicazione. Sono piuttosto emozionata di fare parte dellə speaker e no, non mi vergogno a dire di essere una fangirl di Annamaria Testa. Speech, workshop, networking e la possibilità di personalizzare il proprio percorso.

Sarò un po’ in giro nei prossimi mesi.
Per ogni cosa, come sempre, puoi rispondere a questa mail. O scrivere a info@scritturaribelle.it se vuoi ospitare il mio libro nella tua città.

Ci si vede in giro, finalmente.