Pare che attorno ai trent’anni le nostre sinapsi smettano di collegarsi tra loro. Ti sembra assurdo? Beh, è perché lo è.

Ve l’hanno mai detto? Che esista un’età giusta in cui si è più creativi. Perché a me sì.

In generale, lo dicono a chiunque ci campi, con la creatività.

Non ci giro intorno: abbiamo un problema di dipendenza dalla giovinezza.

Ne siamo ossessionati, ci possiede, è una forza pervasiva a cui è impossibile non abbandonarsi. Siamo Odisseo, e la giovinezza è una sirena.

Lo dico perché ho passato molti degli ultimi anni nella “creative industry”, come la chiamano quelli che un po’ si vergognano a dire che di mestiere inducono la gente a comprare cose. A stimolare il click. A innescare bisogni. Posto che, a parer mio, nessuno può innescare bisogni in qualcuno che non abbia intenzione di avercelo, un bisogno (o forse sì? La questione è aperta).

La creative industry, dicevamo, ha una dipendenza. Ce l’ha con le persone che assume e ce l’ha con le persone a cui si rivolge perché brama la gioventù nella propria forza lavoro e la desidera nel pubblico; perché valuta come migliore chi pensa e chi compra, fornendo come costante un numero riferito all’età. Insomma, creatives e consumers più giovani hanno un valore intrinseco impossibile da eguagliare.

L’età della creatività

Uno studio di UNA del 2019 riferisce che “Il settore è caratterizzato da un’occupazione molto giovane e da una forte presenza femminile. Gli occupati con un’età compresa tra i 15 e i 34 anni sono il 47% del totale, le donne il 65% (rispetto a una media nazionale, rispettivamente, del 23% e 42%).

Nelle stesse agenzie non si va in pensione. Ho scavato nella memoria e, non solo, non ricordo alcunə collega che abbia mai fatto una festa per il pensionamento ma ho chiesto a un po’ di amicə e ex colleghə, migratə come spesso accade da un luogo di lavoro a svariati altri nel corso della propria carriera e no, la gente d’agenzia in pensione non ci va. A un certo punto, come se fosse un dato di fatto come quello degli elefanti che si allontanano dal branco quando sentono che la fine è prossima, cambiano strada. Fanno altro.

Come ci immaginiamo gli over 50 che fanno professioni creative. Imbarazzante no?
image via Pinterest

Questo succede perché, benché ci sia sempre una maggiore attenzione alla scrittura di campagne che non siano discriminatorie, la stessa attenzione fa una voragine nell’acqua quando si tratta di guardarsi allo specchio. L’ageismo (dall’inglese “ageism”) è un fatto connaturato con la percezione che l’industria della creatività ha di se stessa. Young and creative, sapete di che sto parlando.

Ho il sospetto che comunicazione e pubblicità, non riuscendo a esser percepite come materia “riconoscibile” non paghino il proprio premio all’esperienza. Avvocatə, medicə, architettə, docenti possono contare fermamente sull’autorevolezza, su quel bagaglio che con lo scorrere del tempo si arricchisce di materiale utile e di vita. Di profondità. Invece, nell’industria creativa ogni cosa pare debba esser sempre difesa da zero, ogni punto di vista dissezionato, ogni idea al vaglio della generazione precedente.

Perché? Credo, in un certo modo, perché confondiamo innovazione con tecnologia.

Questione di matematica?

L’architettura, l’avvocatura, la medicina sono professioni fondate sulla competenza, che comprendono al loro interno la proporzionalità diretta per cui, al crescere dell’esperienza, cresce anche la competenza. Per le professioni creative è l’esatto opposto: siamo affascinati dal progresso tecnologico (che, ricordiamo, è ben lungi dal concetto più alto di innovazione), usciamo pazzi per ciò che è “disruptive”, ci stracciamo le vesti sull’altare dell’immaginazione più pura. Glorifichiamo la giovinezza perché la confondiamo con la creatività. Crediamo che ə giovani siano liberi e senza paura dove chi giovane non è (almeno secondo i dogmi societari) è lentə e scetticə. Vediamo chi è giovane sfidare lo status quo e chi non lo è mantenerlo. Chi abbatte i confini e chi li innalza.

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Image by @Noah Buscher

Però, niente di tutto ciò è vero.

Un passo fuori

Facciamo l’esercizio di spingerci un poco oltre e non murarci vivi all’interno della creative industry. Perché esiste la vita là fuori e di certo sempre là fuori pochi e poche si preoccupano di noi.

L’unico premio Nobel in campo creativo è quello per la Letteratura. Gli italiani che hanno ricevuto il riconoscimento fino ad oggi sono sei: Carducci (1906), Deledda (1926), Pirandello (1934), Quasimodo (1959), Montale (1975), Fo (1997).

Quando Carducci fu insignito del Nobel, il commento a corredo recitava:
“non solo in riconoscimento dei suoi profondi insegnamenti e ricerche critiche, ma su tutto un tributo all’energia creativa, alla purezza dello stile ed alla forza lirica che caratterizza il suo capolavoro di poetica”.

Aveva 71 anni. Deledda ne aveva 55, Pirandello 67, Quasimodo 58, Montale 79 e Fo 71. Abdulrazak Gurnah, scrittore tanzaniano che ha ricevuto l’ultimo Nobel, ne ha 72.

Ora, spingiamoci ancora un po’ più in là. Pensiamo agli Oscar. Nel 2020, con Parasite come miglior film, l’Oscar è andato a Bong Joon-ho, di anni 50. L’anno prima, con Green Book, a Peter Farrelly, di anni 62. Guillermo del Toro, con La forma dell’acqua, ha ricevuto la statuetta nel 2018, quando di anni ne aveva 53.

Passiamo al Pulitzer: nella sezione “Fiction” se lo aggiudica Louise Erdrich, con i suoi 67 anni. Il Pulitzer per la storia va a Marcia Chatelain (42 anni- lo so che non vi sembra vecchia, ma aspettate ancora un attimo), per il teatro a Katori Hall, che di anni ne ha 40. Eccetera, eccetera.

Il punto è abbastanza evidente: c’è un solo settore che tratta i cinquantenni (e gli over 50, ma anche gli over 40) come creativamente esausti ed è quella di cui abbiamo parlato fin qui. Eppure, gli stessi range di età eccellono altrove.

Continuiamo a esser miopi, sottovalutando persone che, invece, possono portare al tavolo esperienza, diversificazione e complessità. Se non lo facciamo è beh, per un pregiudizio cognitivo.

Fuori dai target

Proprio come gli over 50 sono sottorappresentati nelle nostre agenzie, così sono sottorappresentati nel nostro pubblico. Abbiamo questa tendenza diffusa a credere che i Boomer spendano molto meno di ciò che possiedono e, anche se questo potrebbe essere stato vero per le generazioni di consumatori più anziani che li hanno hanno preceduti, semplicemente non si applica a questa generazione.

La spesa degli over 50 è così alta, infatti, da rappresentare la maggior parte del valore in molte categorie. 

I dati di Confindustria sono piuttosto chiari: “gli over 65 si caratterizzano per: un consumo pro-capite medio annuo più elevato, 15,7mila euro (contro i 12,5 per gli under 35); un reddito medio più alto, 20mila euro (a fronte di 16mila degli under 35); una maggiore ricchezza reale pro-capite, 232mila euro (vs 110mila); una solidità finanziaria superiore, con 1 anziano su 10 indebitato (a fronte di quasi 1 su 3 tra gli under 40); un’incidenza della povertà inferiore della metà rispetto agli under 35 (13% vs 30%); una resilienza al ciclo economico in quanto il reddito medio annuo degli over 65, tra le diverse fasce d’età, è l’unico ad avere superato i livelli pre-crisi.”

A quali di questi segmenti di target ci rivogliamo quotidianamente? Sembra davvero che preferiamo assecondare e rincorrere inutilmente i segmenti più giovani piuttosto che includere gli imbarazzanti Boomer all’interno delle nostre buyer personas.

Gente che usa i nostri siti web, compra le nostre scarpe da ginnastica, passa alle auto elettriche, investe nell’immobiliare, va in vacanza. Eppure, continuano a non essere rappresentati adeguatamente o rappresentati affatto.

Su quale pianeta queste ragazze hanno bisogno di una crema effetto lifting?

Continuiamo a vendere creme antirughe a donne over 50 piazzando strategicamente una 35enne nello spot. Chi guida l’auto ha al massimo 20 anni di patente e il cibo è consumato maggiormente da allegre famigliole in cui i genitori sono poco più che trentenni. Per sempre.

L’industria creativa è affamata dalla sua stessa dipendenza e, senza saperlo, si nutre della gioventù risputando fuori prodotti difettivi, ignorando il segmento più proficuo di sempre. Non stupisce, quindi, che quella stessa dipendenza offuschi il reale, salga su fino ai dipartimenti HR e generi, manco a dirlo, uno dei più massivi turnover professionali di sempre, allontanando le buone idee in virtù di quelle appena espresse. Il valore percepito è tutto lì: nell’età di quell’idea.

L’età giusta della creatività pare essere attorno ai trent’anni. Poi, sei fuori tempo massimo, non crei, non immagini, non servi, le tue sinapsi smettono di collegarsi tra loro.

È vero: abbiamo bisogno di menti giovani e stimolanti ma abbiamo anche bisogno di esperte ed esperti. Abbiamo bisogno di marchi che si rivolgono a target giovani e vivaci, ma abbiamo anche bisogno di marchi che puntino a quelli più anziani e più ricchi.

Aging in Advertising cartoon | Marketoonist | Tom Fishburne
Image by @Tom Fishburne

Rappresentazione e rappresentanza

La faccenda, riducendo con l’accetta, è sempre sullo stesso filo: quello che lega l’equa rappresentazione all’equa rappresentanza.

Invertire il paradigma è faticoso perché cambiare è faticoso. E, se ci pensiamo, questa stasi sta agli antipodi del tanto abusato concetto di innovazione. Tecnologica o no, inizia sempre con un passo fuori dal cerchio. Innovazione, secondo Treccani è “L’atto, l’opera di innovare, cioè di introdurre nuovi sistemi, nuovi ordinamenti, nuovi metodi di produzione”.

Se continuiamo a pensare che significhi inglobare chi è nuovə, ovvero chi è giovane, siamo beh, un po’ distanti.


Il libro della settimana:

  • “Story or Die- O racconti o sei fuori”

    di Lisa Cron, edito da Flaco Edizioni e con una prefazione di Valentina Falcinelli, Brand Personality Strategist e CEO di Pennamontata

  • (è un libro pazzesco).

L’appuntamento della settimana:

  • 9 dicembre, ore 18 30 a BASE Milano per “Disruption is Female”. Ci sono ancora pochissimi posti e se vogliamo incontrarci il link da seguire è questo.

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