La creatività è una questione di tempo ma molto di più di consunzione.
Molto spesso, quando sono assertiva o difendo un’idea, le persone dicono (o pensano e poi vengo a sapere) che avere a che fare con me sia difficile. Che non sono conciliante, che dico spesso più “no” che “sì”. Che dovrei essere meno oppositiva.
Lascerò da parte per un momento tutta la questione legata al mio genere, perché è chiaro che, come tutte le donne, rimango infilata nel cliché per cui dovrei sorridere e annuire per risultare gradevole. Come se fossi sulla Terra per risultare gradevole e non per cavarne fuori qualcosa di buono, dalla mia vita.
Difendere un’idea, per chi di mestiere scrive o crea, è una questione che ha molto a che fare col tempo e moltissimo con la consunzione. La materia prima di chi crea è il tempo: toglilo dall’equazione e si porta via la creatività, lasciando solamente il lavoro. Il lavoro per diventare esperta in ciò che faccio, il lavoro per trovare soluzioni ai problemi, quello che procede per tentativi ed errori, il lavoro di cesello del perfezionare, il lavoro intero del creare.
Creare consuma e lo fa costantemente, tutto il giorno, tutti i giorni.
Perché pure quando ci alziamo dalle scrivanie abbiamo in background diciotto processi diversi, ventisette problemi ancora non risolti, o solo- semplicemente- una nuova idea sotto forma di embrione che non può essere ricacciata indietro. È un’abitudine costrittiva, una forma di vocazione meno patologica dell’ossessione, ma solo perché non l’ammetteremmo mai.
Perciò, dico un sacco di “no”. E per questo, non piaccio quanto potrei. Di nuovo, se fossi qui sulla Terra con l’ambizione massima di piacere a tuttə.
Mi sembra che come umanità abbiamo un grandissimo problema con i “no” perché, in sostanza, ci viene insegnato a dire sempre di sì. I no sono maleducati, sono rifiuti, confutazioni. Sono piccole violenze verbali. I no sono per l’alcool quando non hai l’età giusta per berlo, per le sigarette, per le droghe. Si dice no alle caramelle dagli sconosciuti.
E quindi cresciamo così, con addosso il peso di ciò che potrebbero pensare gli altri che ci schiaccia in maniera impercettibile ma ineluttabile e diventa bagaglio inseparabile, greve, un pilota automatico che condiziona i nostri processi decisionali.
Ho imparato a dire no quando ho compreso il peso delle conseguenze delle mie azioni. Di come essere in controllo e centrata, per quanto penso che nessuno dovrebbe mai esserlo al 100%. E quindi no alle condizioni che non mi stanno bene, no a quella cosa impossibile che mi chiedono di fare, no al cliente che proprio non capisce come mai la sua, di idea, non possa essere realizzabile o è semplicemente sbagliata. No a quella rappresentazione lesiva, no a quel progetto che va contro ciò in cui credo.
No.
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Perché chi crea lo sa: non fatico giorno e notte con questo cervello che non si spegne mai per arrendermi al fatto di scivolare lentamente nei compromessi che poi mi impediscono di essere creativa. Che fanno a pugni con chi sento di essere, generando una frustrazione con cui non voglio fare i conti perché non è mia.
Oh, la vita è piena di compromessi, si dirà. Me lo dicono tutti i giorni e tutti i giorni mi incazzo.
Questo film che non ho voglia di vedere, questa cena con persone di cui non mi importa niente, questo pomeriggio a caso, questo libro orrendo: quanto tolgono alle idee buone? Quante righe in meno scriverò, quante contaminazioni mi perderò, quanto in meno potrò poltrire per ricaricarmi se non riesco a dire no?
La risposta che trovo è sempre la stessa: il “sì” fa fare meno. Tutti i “sì” del mondo non hanno mai cambiato le cose, le hanno lasciate nel loro melmoso e perfetto equilibrio statico che, guarda caso, non ha portato mai a nessun tipo di progresso.
Netflix ha detto no a Blockbuster. Airbnb ha detto no al mondo dell’hospitality. Uber ha detto no alla lobby dei taxi. Le persone in tutto il mondo stanno dicendo no a tornare a lavorare negli uffici. Le categorie di persone marginalizzate si stanno coalizzando in maniera sempre più stretta e in luoghi sempre nuovi, digitali e non, per smettere di vivere nell’oppressione usando la voce che è stata loro negata per secoli.
Ci sarà sempre qualcuno che si opporrà fermamente ai nostri “no”, dicendoci che siamo scortesi, ostili, egoisti, asociali, arroganti. Ma mica è vero.
I nostri no sono interruttori: quelli da premere al momento giusto per permetterci di rimanere accesi.
Tre cose belle successe negli ultimi giorni:
Uno speech con Flavia Brevi a WomenXImpact, raccontando le case studies di Hella Network
Una lezione bellissima di public speaking con Ciccio Rigoli: alla fine ho dovuto preparare un discorso di un solo minuto dal titolo: “Un buon motivo per comprare un fenicottero”.
La “pace fatta” con il Comune di Monterotondo: se non avete letto della vicenda, potete recuperarla qui e qui
Una cosa che mi ha tenuto compagnia:
Il libro “Atti di sottomissione” di Megan Nolan, edito da NN Editore. Che viviate una relazione tossica o meno, è un libro che parla di tutte noi (e di molti uomini).
Una cosa per cui sono davvero grata:
Le parole di un amico, troppo belle per essere vere, così belle che mi sono chiesta:
“me le meriterò?”
Lui dice di sì. Così alla fine ho pensato di sì anche io.